Emergenza Etiopia
Emergenza Etiopia
RSI.ch, 20 Dec 2011
URL: http://info.rsi.ch/home/channels/informazione/info_on_line/2011/12/20--Nuovo-contenuto-Nuovo-fiore-fio
Un essere umano su sette soffre la fame. Ma se ne parla quasi soltanto in occasione di eventi fuori dal comune, come la siccità di portata eccezionale che ha colpito il Corno d’Africa quest’anno. Aggravata da una situazione di guerra in Somalia, ha provocato una nuova ondata di profughi verso i campi di rifugiati dei paesi vicini. Ma l’allarme carestia ha riguardato in totale 13 milioni di persone in diversi paesi, di cui 4,5 milioni in Etiopia e 3,75 milioni in Kenya.
Abbiamo voluto andare a vedere sul posto quale è la situazione: cosa succede quando la pioggia ritorna, ma la fame rimane in agguato e il mondo distoglie lo sguardo. Andrea Vosti si è recato a Dollo Ado, un campo profughi in terra etiope. Lucia Mottini ha incontrato nel Kenya settentrionale, popolazioni pastorali che si confrontano a mani nude con i cambiamenti climatici.
A cura di Andrea Vosti e Mattia Capezzoli
Nuovo fiore, fiore nuovo. Già il nome è una promessa, un auspicio, e un profumo. Addis Abeba, il fiore nuovo, è qualcosa di più di una città. E molto più di un fiore. La vedi dall’alto, dal finestrino, le montagne sullo sfondo, stagliarsi contro il cielo d’Africa.
In un turbinio di polvere, terra rossa, gli slum in periferia, i palazzi del centro che ostentano l’orgoglio di un paese che un tempo era sinonimo di carestia – Etiopia uguale fame, carcasse di animali, bimbi gonfi di fame e occhi chiusi dalle mosche – e invece oggi cammina, avanza, cresce. A ritmi cinesi, 7-8 per cento all’anno.
Ma è un benessere per pochi. E l’orgoglio è fragile, come le impalcature in legno che sembrano sorreggere scheletri di palazzi ancora più fragili.
140 mila rifugiati. Una città cresciuta in pochi mesi a fianco della vera Dollo Ado, appena 20 mila abitanti. Un città fatta di cinque campi, lontani fra loro alcuni chilometri. Migliaia di tende bianche, un via vai continuo di auto bianche con le scritte UN, WFP, MSF e tutte le altre sigle delle trenta ONG attive in questo crocevia di disperazione e fame, conficcato come una lama nel corno d’Africa.
In Luglio – all’apice della carestia- tutti gli occhi erano puntati qui, poi lentamente il mondo si è dimenticato. Della carestia, dei profughi, della fame. E invece questa è un’emergenza permanente.
I Somali continuano ad arrivare, a sfidare i miliziani di al-Shabab che controllano buona parte del paese. Disposti a perdere dei figli per strada pur di salvare gli altri. Pur di trovare cibo, e sicurezza. I fiori non crescono nei campi di Dollo Ado. La miseria accompagna ogni sguardo, lo riempie. Ma c’è una cosa che riempie gli occhi ancor di più: i sorrisi. Bambini che non hanno nulla, hanno visto l’inferno, e sorridono. E donne che hanno perso tutto ma non la dignità. E non abbassano mai gli occhi. Sono rifugiati, adesso. La pioggia tornerà, i prati cresceranno. Per ora si accontentano, pazienti, si chinano e raccolgono il loro primo fiore nuovo.
Te ne accorgi camminando per strada. Fragilità e contraddizioni, miseria nera, miseria dolce, telefonini e morti di fame. Un ecosistema, più che una città.
Il tempo di un assaggio e già il nuovo fiore è una distesa di case, baracche, strade e polvere attraverso il finestrino di un piccolo aereoplano.
Destinazione Dollo Ado, a un passo dalla Somalia, a due dal Kenya. Il più grande campo profughi dell’Etiopia, 140 mila disperati in fuga dalla fame, dalla carestia, dalla guerra, arrivati negli ultimi mesi, dopo giorni e giorni di cammino, sotto un sole che non ha pietà. Senza scorte di cibo, senza acqua.
Un viaggio della disperazione, e della speranza. Sono somali, figli di un paese che esiste solo sulle cartine geografiche, ciascuno orfano a modo suo: chi di una madre, chi di un padre, chi di entrambi. Ciascuno con un sogno che per noi occidentali sembra un incubo: diventare rifugiati.
Perché questa parola ne contiene altre, parole sconosciute per chi conosce solo il sapore della sete, il morso della fame, il sibilo della Guerra. Eppure questa parola per loro è un sogno, la meta di un lungo viaggio. Per loro rifugiato vuol dire diritti, una tessera per il cibo, medicine, acqua. Speranza. E pace.
Abbiamo voluto andare a vedere sul posto quale è la situazione: cosa succede quando la pioggia ritorna, ma la fame rimane in agguato e il mondo distoglie lo sguardo. Andrea Vosti si è recato a Dollo Ado, un campo profughi in terra etiope. Lucia Mottini ha incontrato nel Kenya settentrionale, popolazioni pastorali che si confrontano a mani nude con i cambiamenti climatici.
A cura di Andrea Vosti e Mattia Capezzoli
Nuovo fiore, fiore nuovo. Già il nome è una promessa, un auspicio, e un profumo. Addis Abeba, il fiore nuovo, è qualcosa di più di una città. E molto più di un fiore. La vedi dall’alto, dal finestrino, le montagne sullo sfondo, stagliarsi contro il cielo d’Africa.
In un turbinio di polvere, terra rossa, gli slum in periferia, i palazzi del centro che ostentano l’orgoglio di un paese che un tempo era sinonimo di carestia – Etiopia uguale fame, carcasse di animali, bimbi gonfi di fame e occhi chiusi dalle mosche – e invece oggi cammina, avanza, cresce. A ritmi cinesi, 7-8 per cento all’anno.
Ma è un benessere per pochi. E l’orgoglio è fragile, come le impalcature in legno che sembrano sorreggere scheletri di palazzi ancora più fragili.
140 mila rifugiati. Una città cresciuta in pochi mesi a fianco della vera Dollo Ado, appena 20 mila abitanti. Un città fatta di cinque campi, lontani fra loro alcuni chilometri. Migliaia di tende bianche, un via vai continuo di auto bianche con le scritte UN, WFP, MSF e tutte le altre sigle delle trenta ONG attive in questo crocevia di disperazione e fame, conficcato come una lama nel corno d’Africa.
In Luglio – all’apice della carestia- tutti gli occhi erano puntati qui, poi lentamente il mondo si è dimenticato. Della carestia, dei profughi, della fame. E invece questa è un’emergenza permanente.
I Somali continuano ad arrivare, a sfidare i miliziani di al-Shabab che controllano buona parte del paese. Disposti a perdere dei figli per strada pur di salvare gli altri. Pur di trovare cibo, e sicurezza. I fiori non crescono nei campi di Dollo Ado. La miseria accompagna ogni sguardo, lo riempie. Ma c’è una cosa che riempie gli occhi ancor di più: i sorrisi. Bambini che non hanno nulla, hanno visto l’inferno, e sorridono. E donne che hanno perso tutto ma non la dignità. E non abbassano mai gli occhi. Sono rifugiati, adesso. La pioggia tornerà, i prati cresceranno. Per ora si accontentano, pazienti, si chinano e raccolgono il loro primo fiore nuovo.
Te ne accorgi camminando per strada. Fragilità e contraddizioni, miseria nera, miseria dolce, telefonini e morti di fame. Un ecosistema, più che una città.
Il tempo di un assaggio e già il nuovo fiore è una distesa di case, baracche, strade e polvere attraverso il finestrino di un piccolo aereoplano.
Destinazione Dollo Ado, a un passo dalla Somalia, a due dal Kenya. Il più grande campo profughi dell’Etiopia, 140 mila disperati in fuga dalla fame, dalla carestia, dalla guerra, arrivati negli ultimi mesi, dopo giorni e giorni di cammino, sotto un sole che non ha pietà. Senza scorte di cibo, senza acqua.
Un viaggio della disperazione, e della speranza. Sono somali, figli di un paese che esiste solo sulle cartine geografiche, ciascuno orfano a modo suo: chi di una madre, chi di un padre, chi di entrambi. Ciascuno con un sogno che per noi occidentali sembra un incubo: diventare rifugiati.
Perché questa parola ne contiene altre, parole sconosciute per chi conosce solo il sapore della sete, il morso della fame, il sibilo della Guerra. Eppure questa parola per loro è un sogno, la meta di un lungo viaggio. Per loro rifugiato vuol dire diritti, una tessera per il cibo, medicine, acqua. Speranza. E pace.